Questa settimana affrontiamo una problematica molto diffusa
ed attuale, quella dell'anatocismo bancario.
Con
il termine anatocismo
si intende la capitalizzazione degli interessi sul capitale,
affinchè essi siano a loro volta, produttivi di altri interessi (in
pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi). Nella prassi
bancaria si parla di “interessi composti”e viene effettuata con
periodicità trimestrale o semestrale,
Occorre
premettere che, trattandosi di un argomento alquanto difficile e
tuttora in corso di chiarimenti e precisazioni da parte della Corte
di Cassazione, e verrà affrontato in modo da renderlo il più
comprensibile possibile ma, difficilmente la sua trattativa in
questa sede potrà essere esauriente.
Partendo
dalla sua definizione, ci occuperemo di chiarire come questo veniva
applicato dalle banche, nel periodo antecedente i vari interventi
della Corte di Cassazione (dal 1999 in poi).
Il
fenomeno dell'anatocismo bancario è quella pratica, in uso fino a
pochi anni or sono presso quasi tutte le banche italiane, secondo cui
gli interessi a debito del
correntista venivano liquidati (sul conto) con frequenza
trimestrale, mentre gli interessi a credito dello
stesso erano liquidati con cadenza annuale.
Ciò
provocava un disallineamento nella maturazione degli interessi a
debito ed il conseguente fenomeno dell'anatocismo, perché
venivano calcolati interessi su interessi, secondo le modalità sopra
descritte; tutto ciò andava quindi ad incidere in modo pregnante sui
costi del conto corrente, dei prestiti e, di conseguenza, sulla
capacità economica della famiglia o delle imprese.
Facciamo
un esempio: se un correntista aveva un conto “in rosso”
per 10.000 €, la banca gli addebitava ogni tre mesi i relativi
interessi; in questo caso, ad un tasso del 10%, erano 250 euro che
andavano a gravare subito (senza attendere la fine dell’anno) sul
capitale a debito. Quindi, i successivi interessi a debito venivano
calcolati non più su 10.000 € ma su 10.250 € e così via; con
questo sistema il correntista si trovava a pagare, a fine anno, un
monte interessi più alto rispetto ad un calcolo annuale.
Nell'ordinamento
giuridico italiano, è sempre esistito il divieto dell'anatocismo
(art. 1283 del Codice Civile).
Ciò
nonostante, le Banche agivano “legittimamente” quando
applicavano detta metodologia di calcolo, perché tale comportamento
era stato ampiamente avallato dalla giurisprudenza. Il tutto fino al
momento in cui è iniziato tutto il processo di revisione
interpretativa delle norme riguardanti l'anatocismo, con le
sentenze cosiddette della “primavera del
1999”, e fino alla famosa
sentenza della Corte di Cassazione del 4 novembre 2004, n. 21095.
Prima
di questa sentenza, l'art. 25 del Decreto Legislativo n. 342/1999,
comma 2, (che ha introdotto un nuovo comma all'art. 120 del Testo
Unico Bancario, D. Lgs. n. 385/1993), prevedeva la possibilità di
stabilire, tramite un'apposita delibera del CICR (Comitato
Interministeriale per il Credito e Risparmio), le modalità ed i
criteri di produzione degli interessi sugli interessi, maturati
nell'esercizio dell'attività bancaria, purché fosse rispettata la
stessa periodicità nel conteggio sia dei saldi passivi, sia
di quelli attivi. Successivamente, la sentenza del CICR emanata il 9
febbraio 2000, ha definitivamente fissato il momento di decorrenza
dell'obbligo, a carico delle Banche, di riconoscere ai correntisti
pari periodicità nella liquidazione degli interessi.
Nondimeno,
nello stesso decreto n. 342/1999 (c.d. Decreto salva-banche), il
legislatore stabiliva nel contempo, con norma transitoria, una vera e
propria sanatoria per il pregresso, facendo salve le clausole di
capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima
dell'entrata in vigore della nuova disciplina.
Tale
norma transitoria è stata però dichiarata illegittima per
violazione dell'articolo 77 della Costituzione, dalla Corte
Costituzionale con sentenza
del 17 ottobre 2000 n. 425.
Il
processo di revisione al momento si può considerare concluso con la
già citata sentenza del 4
novembre 2004 n. 21095, delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, nella quale in sostanza si afferma l’illegittimità,
anche per il passato, degli addebiti bancari per anatocismo.
In sostanza, la Corte afferma che le clausole di
capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori precedenti al
1999, non sono mai state rispondenti ad uno uso normativo, bensì
negoziale e quindi in contrasto con il principio contenuto nell’art.
1283 che, laddove fa salvi gli “usi contrari”, fa riferimento
solo ed esclusivamente agli “usi normativi” di
cui agli articoli 1 e 8 disp. Prel. C.C..
L’uso
normativo consiste infatti, come riportato nella sentenza, nella
“ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un
determinato comportamento, accompagnato dalla convinzione che si
tratta di comportamento giuridicamente obbligatorio, in quanto
conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte
dell’ordinamento giuridico”
(sentenze 2374 e 3096 del 1999).
In
altre parole le clausole anatocistiche sono state accettate non
perché gli utenti fossero convinti della loro rispondenza a principi
dell’ordinamento giuridico, ma piuttosto perché costretti ad
accettarle per poter accedere ai servizi bancari.
Questo
atteggiamento psicologico è ben lontano da quella spontanea
accettazione che contraddistingue invece la consuetudine come
istituto giuridico.
Ne
consegue che, (come da orientamento oramai costante della Corte di
Cassazione: Cass. Civ. 18 settembre 2003, n. 13739; Cassazione
Civile, Sez. I, 1 ottobre 2002, n. 14091; Cassazione, Sez. I, 28
marzo 2002 n. 4498; Cassazione, Sez. I, 28 marzo 2002 n. 4490;
Cassazione, Sez. I, 1° febbraio 2002 n. 1281; Cassazione, Sez. I, 11
novembre 1999 n. 12507; Cassazione, Sez. III, 30 marzo 1999 n. 3096),
si dovranno ritenere nulle tutte le clausole bancarie
riguardanti l'anatocismo, il cui inserimento nel contratto sia il
frutto di una mera volontà unilaterale della banca (c.d. Clausole
vessatorie).
Non
solo. Anche le clausole di capitalizzazione trimestrale degli
interessi passivi dovuti dal cliente ad una banca sono nulle, in
quanto esse non rispondono ad un uso negoziale, anche se le stesse
siano nel contratto specificate come "conformi alle norme
bancarie uniformi”.
Il merito della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione è quello di confermare tale orientamento partendo dalla constatazione che gli utenti si sono adeguati alla imposizione della capitalizzazione trimestrale dell'interesse passivo, non perché "convinti" che fosse conforme alla normativa del settore, ma perchè capziosamente inserita nei moduli unilateralmente predisposti dalle banche, la cui sottoscrizione costituiva elemento imprescindibile per poter accedere ai servizi bancari.
Il merito della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione è quello di confermare tale orientamento partendo dalla constatazione che gli utenti si sono adeguati alla imposizione della capitalizzazione trimestrale dell'interesse passivo, non perché "convinti" che fosse conforme alla normativa del settore, ma perchè capziosamente inserita nei moduli unilateralmente predisposti dalle banche, la cui sottoscrizione costituiva elemento imprescindibile per poter accedere ai servizi bancari.
Le
clausole anatocistiche, quindi,
sono da considerarsi sempre e comunque invalide,
anche quelle relative a rapporti bancari anteriori al 1999.
Venendo
ora ad affrontare l'aspetto pratico della questione, la domanda che
viene frequentemente posta è questa: “E’ possibile chiedere
la restituzione di quanto pagato indebitamente?”
Personalmente,
mi auguro che si possa seguire una strada transattiva senza intasare
i tribunali (o giudici di pace per importi più modesti), dimostrando
in tal modo alla collettività ragionevolezza e, soprattutto, una
forma di ritrovata e reciproca fiducia, quale unico e vero patrimonio
di ogni sistema creditizio.
Detto questo, “SI”,
è possibile chiedere la restituzione delle somme indebitamente
versate alle banche, chiedendo la rideterminazione del capitale preso
in prestito mediante applicazione ad esso degli interessi passivi
annuali e non di quelli trimestrali.
E’ necessario, tuttavia, che la restituzione venga richiesta
entro 10 anni dall’estinzione definitiva del rapporto contrattuale
con la banca. (ovvero entro 10 anni dalla fine del rapporto di mutuo
o di altro rapporto bancario in forza del quale l’istituto di
credito abbia concesso finanziamento al cliente ).
Se, nonostante ciò,
la banca non aderisce alla richiesta, è necessario agire in
giudizio.
Avv. Arturo Varricchio
pubblicato su Benevento Giornale - La voce del Sannio il 24 gennaio 2009